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Prima dei cookie come si tracciavano gli utenti?
Oggi parliamo di cookie, banner, GDPR e di come venivano tracciati gli utenti prima dell’avvento dei cookie.

Agli albori di Internet, l’unico metodo per capire cosa stesse accadendo su un sito erano i log dei server: file di testo con elenchi di richieste HTTP. Quei log permettevano di scoprire quali pagine erano state visitate, da quale IP e con quale browser. Erano strumenti puri, usati principalmente dai tecnici: pochi però li interpretavano davvero.
Contemporaneamente nacque il fenomeno dei hit counters: piccoli script che mostravano pubblicamente il numero delle visite. Anche se imprecisi e manipolabili, offrirono una prima forma di analisi per chi si affacciava al web con poco budget e poca competenza tecnica
Con l’evoluzione del web, un semplice contatore non bastava più: le pagine web diventavano più complesse e il concetto di “hit” si sfilacciava. Arrivò così il JavaScript tagging, che consentiva di registrare in modo più accurato cosa facevano i visitatori su una pagina.
Grazie al tagging, si potevano misurare click, eventi, moduli compilati, rendendo i dati più granulari e utili per capire l’interazione degli utenti.
I primi cookie sono stati inventati nel 1994 da Netscape per gestire sessioni e carrelli. All’inizio servivano a memorizzare preferenze di accesso o contenuti nel carrello, cioè a migliorare l’esperienza utente sui siti che viaggiavano su server ad alta complessità.
Erano cookie first-party, legati al dominio visitato, e potevano essere letti solo da quel server senza la portata tracciabilità cross-site dei cookie moderni.
Negli anni 2000, arrivano i third‑party cookie, utilizzati da reti pubblicitarie per tracciare gli utenti tra diversi siti. Il valore del tracciamento aumentò rapidamente: profilazioni, remarketing e targeting mirati diventarono strumenti centrali nel marketing digitale.
Parallelamente, nacquero strumenti come Google Analytics, che rivoluzionarono il modo di leggere, visualizzare ed usare i dati sul web, rendendoli visibili e accessibili ad ogni tipo di business. L’eccessivo tracciamento ha, però, negli anni sollevato interrogativi normativi ed etici, a cui si è risposto con l’adozione del GDPR e il blocco nei browser dei cookie di terze parti (politiche adottata in prima battuta da Safari e Firefox, e adesso anche da Google Chrome).
In questo scenario si inseriscono anche strumenti, ormai familiari, come le cookie policy e i cookie banner. Non sono solo elementi di trasparenza verso l’utente, ma dei veri obblighi normativi: un sito oggi, infatti, deve informare in maniera chiara su quali cookie utilizza, per quali finalità ed ottenere un consenso esplicito e documentabile. Il consenso, infatti, non può essere dato in modo implicito, ma deve derivare da un’azione attiva dell’utente, come un click sul tasto “Accetta”.
Per rispettare la normativa GDPR è necessario anche un blocco preventivo degli script. Parlare di blocco script significa che i cookie non essenziali non possono essere caricati fin quando l’utente non ha espresso chiaramente la sua scelta.
Per rispondere a queste limitazioni e tracciare gli utenti in modo alternativo sono entrate in scena tecniche come:
- Browser fingerprinting: raccolta di dati come risoluzione schermo, estensioni, sistema operativo per creare un’identità digitale unica;
- Pixel invisibili e tag negli URL (es. Facebook Pixel con FBCLID, ovvero il Facebook Click Identifier), per collegare una visita ad una specifica campagna o utente anche in assenza di cookie;
- Tracking tramite session resume TLS, sfrutta meccanismi tecnici della connessione sicura (TLS) per mantenere traccia dell’utente anche in visite successive, sebbene sia una tecnica controversa e ambigua in ambito privacy.
Sono metodi avanzati ma sempre più utilizzati, anche quando i cookie sono bloccati o assenti.
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